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venerdì 5 aprile 2013

Uso e abuso delle parole








“Che consapevolezza ha la maggior parte di noi riguardo alla sostanza delle parole? Estraniate dal terreno dell'anima, le nostre parole non crescono come frutto di discernimento, ma si rivelano aridi cliché, rifiuti tratti dalle discariche dell'intelligenza. (A. J. Heschel).

Per l'uomo d'oggi niente è più familiare e al tempo stesso trito e ritrito quanto le parole. Sono le cose più a buon mercato, più abusate e insieme meno curate. Sono oggetto di frequenti profanazioni. Tutti viviamo in esse, sentiamo in esse, pensiamo in esse, ma poiché non riusciamo a sostenere la loro indipendente dignità, a rispettarne il peso e la potenza, le parole divengono dei relitti, si fanno elusive, come una boccata di polvere. (A. J. Heschel).

Le parole hanno smesso di essere impegnative. La nostra sensibilità alla loro forza va inesorabilmente scemando. Ed è amaro il destino di quelli che hanno smarrito completamente il senso del loro peso, perché le parole si vendicano con quanti hanno abusato di loro” (A. J. Heschel).

"Oggi usiamo le parole come giocattoli. Dimentichiamo che sono ricettacoli dello spirito (…) Abbiamo perso il rispetto riverenziale per le parole (…) la consapevolezza del miracolo delle parole, del mistero delle parole (…) Le parole sono diventate cliché, oggetti di abuso totale. Hanno cessato di essere impegni". (A. J. Heschel).

Abraham Heschel è stato uno dei massimi pensatori ebraici del secolo scorso.

Marco Attilio, come ci ha tramandato Cicerone, "partì verso il supplizio, per tenere fede alla parola data al nemico". Anche Sant'Agostino lo pone come esempio, anteponendolo agli eroi romani che per orgoglio o per vergogna si erano suicidati. Attilio Regolo, sciogliendosi dalle suppliche del senato e dall'abbraccio dei familiari, dopo aver compiuto la sua missione, se ne tornava in Africa, per mantenere fede alla parola data al ne-mico cartaginese, che lo ripagò facendolo rotolare giù per una china rinchiuso in una botte irta di chiodi. 

Erano tempi in cui la parola aveva un valore sacro. Quando gli accordi erano siglati da patti verbali, tanto che la parola data dal pater familias veniva definita sacramentum. E la fides, fiducia intesa come vincolo della parola data, era uno dei princìpi fondamentali del diritto romano.


La Bibbia, subito, nelle prime pagine ci si trova di fronte alla grandezza della parola: "E Dio disse". Disse, e il mondo avvenne. Molte pagine più avanti, poi, nella Bibbia cristiana, Matteo racconta che, "venuta la sera, gli portarono molti indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la sua parola e guarì tutti i malati". Con la sola parola, Gesù di Nazareth guariva e salvava vite perdute. 

Arriviamo al Medioevo, apoteosi di come una intera società ha potuto crearsi e durare mille anni basandosi solo sul rigoroso legame della parola. Un'intera piramide gerarchica era strutturata sul giuramento al capo. Tanto che nel Medioevo l'insulto più sanguinoso era fellone, cioè bugiardo, spergiuro.

Nasce il mito del cavaliere, di cui i poeti medievali ci tramandano l'immagine (un pò idealizzata) del puro di cuore, che difende i deboli, rifiuta l'inutile violenza, ha pietà per l'avversario battuto, onora la donna, disprezza ogni sorta di tradimento, e sempre mantiene fede alla parola data. 

La mediazione culturale operata dai vescovi feudatari con l'invenzione della cavalleria ha creato l'immaginario dell'uomo per bene che è rimasto vivo fino all'ottocento: colui che manteneva la parola, che non faceva del male a nessuno.

Anche la Magna Charta inglese esigeva che il conte mantenesse "sincera e perfetta fede e verità nella sua parola" verso tutti gli uomini.

Ah ma erano altri tempi...



 

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